Prefazione

Allora è vero. Pochi lo sapevano, qualcuno lo sospettava, ma nessuno ci credeva, o voleva crederci: l’età digitale sta diffondendo una “malattia” di proporzioni bibliche, alla quale nessuno sembra poter sfuggire.

Basta accendere un computer e intraprendere la più banale e innocente delle navigazioni: da quell’istante, hai potenzialmente consegnato una parte di te stesso a un potere oscuro e a tratti smisurato che incomincia a impossessarsi di te, “tracciando” la tua personalità e incominciando a creare un simulacro di te stesso, che altri governeranno.

E’ il “Corpo digitale”: un tuo doppione – nudo e indifeso – attraverso il quale un potere che non conosci tenterà di usarti in ogni  modo, e al limite potrà ricattarti come e quando vorrà.

Incubi da fantascienza? Assolutamente no, secondo Luca Poma. Al quale bastano le 100 pagine che seguono per delineare un’iper-realtà che non è più minaccia, ma morbo già dilagante nel sistema linfatico del popolo dei computer, e in fase di “installazione” nelle cellule più segrete di ogni Corpo Reale, per trasformarlo in Corpo Digitale.

Al di là della dichiarata e voluta enfasi provocatoria dell’autore, la documentazione – anche scientifica – riscontrabile in ogni aspetto dell’impressionante quadro delineato da questo saggio ci toglie – ahimè – la speranza che si tratti di un cataclisma lontano.

Ogni corpo reale che si avvale di mezzi di comunicazione digitale è già in fase di trasformazione in “Corpo digitale”: un nostro “io”, di proprietà altrui; l’entità che, come afferma l’autore, “non corrisponde semplicemente a noi stessi mentre navighiamo sul web, né alla sola traccia della nostra presenza sui Social Network e Digital Media. Quando parliamo di ‘Corpo Digitale’ intendiamo la rappresentazione più estesa possibile e la ricostruzione digitalizzata di tutte informazioni che produciamo nelle nostre interazioni digitali, di qualsiasi tipo, costantemente aggiornate e archiviate in una miriade di piattaforme e database diversi, che fanno propri ‘golosamente’ e bulimicamente tutti dati che ci appartengono, ma soprattutto “disegnano” i confini di chi noi siamo”.

Spiati dunque da occhi misteriosi a ogni passo on-line, dall’acquisto di un DVD ad un’eventuale sbriciatina a un sito “hard”, dalla comunicazione d’affari alla prenotazione turistica, dalla notizia sanitaria alla confidenza professionale: tutto serve, anche l’inezia, al Demiurgo fabbricatore del nostro “Io digitale”, per catalogarci in astrali archivi di dimensioni inimmaginabili, capaci di stipare un doppione d’umanità.

Custodito nell’immane magazzino, il nostro Corpo digitale diventa a nostra insaputa merce sfruttabile senza limiti di forma e di tempo, sezionabile, rivendibile, capace di sopravvivere alla nostra stessa morte, a meno che un limite non venga fissato da regole peraltro di là da venire. L’uragano informativo sarà l’utilizzo più innocente: gli altri potrebbero arrivare fino alla creazione di uno stato simile all’alienazione, o addirittura alla schiavitù.

Uno scenario irrimediabilmente nefasto? Si e no, come di fronte ad ogni rivoluzione epocale, e questa è paragonata dall’autore all’invenzione della scrittura. Nel corso della storia, la moltiplicazione del potere di uno strumento ha creato bene e male in misura che nessuna bilancia potrà mai “pesare”, perché né il Bene né il Male hanno mai saputo o potuto amministrare per intero quello strumento.

Al punto in cui siamo, “con un piede nel mare digitale e l’altro ancora a riva”, in preda alla vertigine, anche il più volonteroso ottimismo non ci concede che una risposta: non sappiamo.

Siamo, come conclude l’autore, “Immigrati digitali, in parte diffidenti verso un mondo così nuovo, e comunque in preda alla corrente, che trasporta il barcone della nostra vita – reale e virtuale – verso continenti davvero sconosciuti, dei quali a malapena riusciamo a intravedere gli esatti confini.”

Pagine come quelle che seguono servono a farci aprire gli occhi, e a renderci collaboratori consapevoli di una salvezza. O di un’apocalisse.

 

Silvia Rosa-Brusin

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