Introduzione
“Praticate gentilezza a casaccio, e atti di bellezza privi di senso”.
E’ una delle più straordinarie “massime” che circolano in modo virale sul social network, e che – come ci ricorda l’Huffington Post USA – è stata anche oggetto di uno studio scientifico, realizzato da due psicologhe sociali, Jennifer Trew e Lynn Alden, secondo le quali praticare atti di generosità “random” potrebbe essere il segreto per alleviare una particolare forma di ansia, quella sociale.
Nel loro studio, le due ricercatrici hanno diviso un gruppo di studenti delle superiori con diagnosi di “fobia sociale” in tre sotto-gruppi: a uno è stato chiesto di provare a combattere l’ansia facendo favori e gentilezze nei confronti di amici e familiari; al secondo è stato detto di fronteggiare l’ansia partecipando a eventi pubblici; al terzo è stata affidata la funzione di gruppo di controllo, ovvero tenere traccia di tutti i propri sentimenti quotidiani durante il mese di durata dell’esperimento.
Al termine del periodo, le ricercatrici hanno tratto le somme, mediante la somministrazione di questionari e l’analisi clinica diretta: i giovani impegnati nella “strategia della gentilezza” hanno ridimensionato i loro stati ansiosi in misura “statisticamente significativa” rispetto agli altri due sotto-gruppi.
Diversi altri studi hanno dimostrato che essere gentili ci rende più felici, meno stressati, e addirittura – secondo alcuni scienziati – ci permettono di vivere più a lungo, se è vero che – come ha riportato l’edizione italiana sempre dell’Huffington[1] – uno studio recente di Barbara Fredrikson, Psicologa dell’Università della Carolina del Nord, pubblicato sulla rivista PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences, ha dimostrato che occuparsi degli altri influisce positivamente sulla nostra salute e longevità, perché garantisce modificazioni sia a livello cellulare che genetico.
Quanta “felicità” c’è in rete, tra gattini e foto di spiagge assolate? Quanti sono per contro – ben più infidi e pericolosi – gli “stati ansiosi” interamente generati dal web, e segnatamente dai social network, con urla scritte in maiuscolo, scontri sulla politica, insulti da opposte tifoserie per il calcio, e tradimenti coniugali rivelati da chat lasciate aperte per errore dal coniuge…? E – mi chiedevo quando ho iniziato a scrivere questo saggio – che tipo di effetto “concreto” è possibile dimostrare abbiano queste “lacerazioni digitali” nella nostra vita reale…?
A quel punto si rendeva necessario – lungi dal voler trarre delle conclusioni – perlomeno prendere la penna in mano per tentare di disegnare delle ipotesi. E per sottolineare quanto spesso un autore combatta contro la sensazione di non aver poi “nulla d’interessante da dire”, ci tengo a citare un aneddoto. Nell’ottobre 2007, con il mio team di lavoro avevamo acquistato – fa ancora fede la ricevuta di registrazione al NIC – i domini web skatti.it scattalo.it mandamelo.it pubblicalo.it e altri simili: la nostra idea – da semi-analfabeti di App quali eravamo allora – era di creare un sito per la catalogazione, pubblicazione e messa in comune – su account personali condivisibili all’interno di una grande web-community – di foto scattate con il proprio cellulare. L’idea rimase “in culla” per mesi: sarà una buona idea? Ma soprattutto: come promozionare la community? A chi rivolgermi per la raccolta dei fondi necessari alla pubblicità on-line? Quali strategie di visibilità applicare per renderla nota a una quantità sufficiente di utenti da far scattare poi il “passaparola”, e quale modello di business adottare per renderla redditizia, di lì in avanti? Tutte domande che nella nostra mente restarono senza risposta, presi dall’affanno del quotidiano, finchè nel 2010 Kevin Systrom non inventò Instagram, lanciandola proprio a ottobre, ovvero esattamente 3 anni dopo la nostra brillante “idea senza gambe”, e rivendendola poi a Facebook pochi anni dopo per oltre 700 milioni di dollari. Penso non ci sia stato scenario professionale nella mia intera esistenza che mi abbia fatto sentire più idiota di quello. Ciò che mi ha lasciato tuttavia quell’esperienza è stato – vividissimo – il coraggio di “tentare”, di non correre il rischio di farmi convincere – o più spesso di convincermi io stesso – dell’inopportunità di esprimere le mie idee e dar concreta forza, per quanto possibile, alla loro realizzazione.
Le riflessioni – come leggerete in questo saggio – circa il fatto che l’uso di strumenti entrati così pervasivamente nel nostro quotidiano come sono i social network, i blog e il resto dei digital media, possa avere conseguenze tangibili sulla fisiologia del nostro organismo, fino a condizionare in parte il patrimonio genetico delle persone, trasferendo poi quest’impatto anche alle successive generazioni tramite modificazioni misurabili di una parte del DNA, è – per come ho inteso io illustrarla – un contributo alla riflessione e allo studio tanto azzardato quanto probabilmente “originale”, in ragione di quanto intreccia e contamina ambiti quali la biopsicologia e la genetica con la comunicazione, segnatamente quella digitale, mondi per molti versi apparentemente lontani.
Il chimico di origine tedesca Arthur Obermayer racconta come – su suo personale suggerimento – nel 1959 lo scrittore di fantascenza Isaac Asimov venne coinvolto dalla Allied Research Associates di Boston – una filiale del MIT – in uno studio sugli effetti delle armi nucleari e sulla creazione di un sistema di difesa anti-missili balistici. Il Governo USA si era infatti reso conto che qualunque cifra avesse speso per migliorare e implementare la tecnologia “di offesa” esistente, essa sarebbe comunque risultata di per se inadeguata: era necessario trovare gli approcci più creativi possibili per la creazione di un sistema di protezione realmente efficace contro i missili URSS, e i militari volevano che gli esperti si dedicassero ad elaborare soluzioni assolutamente “al di fuori degli schemi normali”. Asimov partecipò a diverse di quelle riunioni, anche se alla fine decise di abbandonare a causa degli stringenti patti di riservatezza che avrebbe dovuto sottoscrivere, e che – a suo avviso – avrebbero di molto limitato la sua libertà di espressione come scrittore. La cosa interessante è che scrisse un brevissimo ma interessante saggio[2] sul processo creativo e su come funziona la natura delle persone creative, anche sulla base del tipo di ambiente che le circonda e che può favorire o meno la creatività. Asimov illustra molto bene i processi che possono portare a nuove riflessioni di carattere scientifico, sostenendo che ciò che è necessario affinchè ciò avvenga non è solo un buon background culturale in un determinato campo, ma anche la capacità di creare un “nesso fra A e B”, anche quando – normalmente – i due argomenti non sembrano essere connessi fra di loro: sono proprio i collegamenti trasversali, audaci, o non convenzionali, e a tratti apparentemente irragionevoli, che spesse volte nel corso dell’evoluzione della scienza hanno garantito il vero valore aggiunto.
Numerosi autori – molti di essi ben più qualificati del sottoscritto – hanno fornito contributi sostanziali allo studio delle dinamiche di interrelazione sulle piattaforme digitali, e innumerevoli libri e saggi sono stati fino ad oggi pubblicati, contenenti riflessioni sulla straordinaria opera di “democratizzazione” dell’accesso alle informazioni e alla conoscenza permessa da social network e digital media, e nel contempo sui “rischi di abuso” connaturati nell’utilizzo di questi strumenti, il cui accesso e la cui disponibilità – ci piace pensare – sono e devono restare liberi…
O forse no? Nell’ormai lontano 2012, nella mia qualità – allora – di Consigliere per la Comunicazione Digitale del Ministro degli Esteri della Repubblica Italiana, presso la Farnesina, segnalai al Ministro in carica che in vista dell’imminente vertice di Baku, in Azerbaijan, il Governo italiano non aveva ancora preso posizione circa una mozione nella quale di sarebbe discusso della “libertà di internet”. Si sarebbe discussa infatti una proposta potenzialmente pericolosa, che avrebbe potuto generare un sistema di governo e controllo della rete non virtuoso, con l’istituzione di un “organismo sovranazionale di controllo della rete”; una specie di “ONU dl web”, che avrebbe avuto come compito quello di stabilire – secondo un principio di “regolamentazione multilaterale” – gli standard e le procedure che avrebbero regolato negli anni successivi lo sviluppo delle infrastrutture della rete. Apparentemente molto democratico: ogni Stato un voto. Ma – a pensar male si farà peccato, ma ogni tanto ci si azzecca, come ricordava quell’indimenticato politico italiano – il delegato di un Governo si può sempre convincere, o – alla peggio – corrompere: sarebbe stato l’inizio di un’era di pericoloso controllo governativo – o, per il tramite dei governi, delle grandi Corporation – sulla rete internet. La creazione di un meccanismo di controllo, pur animata dalle migliori intenzioni, avrebbe rischiato di permettere ad alcuni Stati di inserire “limitazioni” sulla base di interessi di particolari di nazioni tendenti a fare del principio della libertà un principio “adattabile” alla tradizione locale e alla cultura locale, e quindi sovvertendo il concetto di “unitarietà e universalità” dei Diritti dell’uomo. Il Ministro, analizzata la segnalazione e consultata la validissima struttura tecnica del Ministero, ne parlò con un collega in Consiglio dei Ministri, e pochi giorni dopo il sito web del quotidiano “La Stampa” pubblicò una lettera aperta dei docenti del Politecnico di Torino sull’argomento, ovviamente concordata con noi; il Ministro ebbe così modo di rispondere sulla stessa piattaforma on-line del quotidiano, e annunciare pubblicamente che il Governo italiano era in prima linea nella battaglia per la tutela della libertà di espressione su Internet. A quel punto, anche alcune grandi TLC si sono sentite “obbligate” a manifestare a loro volta on-line la propria posizione, ovviamente – se non altro per rispetto alla sensibilità diffusa nell’opinione pubblica – in modo contrario alla mozione di Baku. Alla fine, l’Italia – come gli Stati Uniti, peraltro – ha votato contro, condizionando – positivamente, dal mio punto di vista – l’esito delle votazioni. Un esempio concreto, questo che ho raccontato, di come la libertà del web possa non essere affatto scontata.
Internet è il più grande spazio pubblico mai creato dall’uomo. Offre l’opportunità di acquisire conoscenza, creare e condividere idee, partecipare attivamente alla vita della società. Si tratta di un bene comune da salvaguardare. Ma è realmente una “free-zone” come ci piace immaginarlo? Ci sono molti modi – anche lontano dalle “grandi manovre” finite sotto i riflettori a Baku – per condizionare la rete e piegarla a un ben preciso modello di business.
Anche a questa domanda tento di dare una riposta in questo libro, analizzando in un’ottica “non convenzionale” alcune delle modalità attraverso le quali i nostri “Corpi Digitali” condizionando la nostra vita reale, e – nei casi più estremi – la nostra salute.
Tornando allo spirito che ha governato questo progetto editoriale, come ricordavo con i miei co-autori di allora in un altro mio volume, Franco Carlini, ricercatore in Cibernetica al CNR, indimenticato giornalista, e salace commentatore di dinamiche sociali del web e di fatti e tendenze del mondo della comunicazione digitale, ebbe a scrivere su “Chips & Salsa”, Blog parte di un corpo Digitale che è gli è sopravvissuto e che è tutt’ora on-line dopo anni dalla sua morte: “Ogni idea non nasce dalla scintilla dell’intelligenza di un uomo solitario, ma è il frutto del sapere e della cultura prodotti da milioni di altre persone delle generazioni precedenti e di quelle contemporanee”.
Verissimo, e aggiungo che questo volume, ancor più per le sue ridotte dimensioni, riflette in pieno anche il pensiero di Isaac Newton, quando ricordava che “Ognuno si eleva sulle spalle dei giganti che l’hanno preceduto”. Inutile e ridondante enfatizzare l’esiguità del contenuto delle poche pagine che avete in mano: ciò che voglio piuttosto tornare a sottolineare è che la cultura e il sapere raramente si creano dal nulla, e che ognuno aggiunge a un più grande mosaico un nuovo piccolissimo tassello.
Dal canto mio, sarò quindi soddisfatto semplicemente se – “unendo i puntini”, forse con un punto di vista in parte inedito – avrò aggiunto qualche utile spunto di riflessione al lavoro straordinario, appassionato e insostituibile di tanti seri ricercatori scientifici, alla cui “curiosità” dobbiamo il progresso delle tecnologie digitali, della capacità dell’uomo di utilizzarle, e in fondo – dell’intera Umanità.
Luca Poma
[1] l’articolo è online alla URL http://www.huffingtonpost.it/2014/11/06/benefici-altruismo_n_6113590.html
[2] il saggio, dal titolo “How Do People Get New Ideas?”, è consultabile alla URL http://www.technologyreview.com/view/531911/isaac-asimov-asks-how-do-people-get-new-ideas/